Walter Veltroni parla con Daniele De Rossi, a poche ore del match contro l'Udinese. Intervistato in esclusiva per il Corriere dello Sport, il capitano della Roma si è raccontato a trecento sessanta gradi, parlando del suo passato e del suo futuro: "Innanzitutto ringrazio per la definizione di saggio - sorride - credo di essere una persona molto equilibrata. Mi è sempre stato riconosciuto, anche durante le prime fasi della mia carriera. È il mio carattere. Dentro il campo, ogni tanto, ho un po’ macchiato questa immagine con quelle uscite di foga che mi hanno sempre caratterizzato. Adesso anche in campo riesco a controllarmi meglio e sarebbe grave se non fosse così, a trentaquattro anni. Credo di venire reputato, anche dagli avversari, come una persona a modo".

Inevitabile, poi, il passaggio sulla difficoltà di vincere a Roma e con la Roma: "Questo è un discorso che meriterebbe un’intervista tutta per sé. È difficile vincere a Roma perché ci sono società più potenti a livello economico, con più storia alle spalle, per quel che riguarda le vittorie, e, lo sappiamo, “vincere aiuta a vincere”. La Juve in questi anni ha avuto uno strapotere finanziario certo, grazie allo stadio ma anche per come hanno gestito il capitale umano di cui disponevano. E si sono tolti di dosso l’immagine dell’ultima gestione, che era stata vincente ma aveva delle macchie gigantesche sul groppone. Noi gli siamo sempre stati dietro negli ultimi anni. Passargli davanti sfiora l’impossibile, ma noi ci proviamo, non abbiamo mai mollato, non abbiamo mai smesso di tentare di farlo, non ci nascondiamo dietro a questo loro strapotere, partiamo alla pari con tutti quanti".

Restato per amore, Capitan non più futuro ha però lanciato una vera e propria bomba, sottolineando che a fine carriera potrebbe allontanarsi dai colori giallorossi: "Non lo so. Ho sempre pensato che sarebbe molto bello se io finissi a Roma. Mi piacerebbe vivere, con le dovute proporzioni, una giornata come quella che ha conosciuto Francesco il 28 maggio. Sarebbe bello vivere un saluto così intenso con i tifosi, anche per me. Non so quando, non so come. Allo stesso tempo però avverto forte il desiderio di vivere un’esperienza altrove. Anche perché sedici anni di Roma sono come trentadue anni da un’altra parte, sono impegnativi, te li senti addosso. Ringraziando Dio non fisicamente perché sto vivendo forse le migliori stagioni della mia carriera. Ma la pressione è eccessiva, spesso".

E, a proposito di pressione, De Rossi spegne un po' il luogo comune che vuole l'ambiente romano eccessivamente carico di aspettative: "Negli anni mi sono convinto che non sia così determinante come pensavo quando ho iniziato. Sai “Oddio le radio hanno massacrato quel giocatore…”, sì ma poi non vanno in campo le radio, vanno i giocatori. Certo, le radio, i giornali, l’estrema passione che c’è in città ogni tanto portano a superare i limiti. Secondo me hanno fatto un danno, hanno stravolto quel senso di “romanismo” che esisteva un tempo. Il romanista prima difendeva sempre un altro romanista, difendeva il proprio giocatore anche se era il più scarso. Era proprio una famiglia, qualcosa che univa tutti quanti perché “noi siamo romanisti, noi siamo romani, noi siamo una cosa diversa da voi“. Adesso c’è una facilità nel dividersi per qualsiasi cosa che se non ha portato meno punti in campo sicuramente non ha aiutato a vivere meglio quello che si faceva. C’è una sorta di tendenza a creare un po’ di scompiglio, qualcuno perché ha degli interessi a farlo, altri perché poi siamo proprio portati a fare questo".

Importante anche il passaggio sui suoi vecchi tecnici: "C’è stato un periodo in cui ero allenato da Spalletti e da Conte nello stesso tempo. Allenatori molto diversi tra di loro, anche a livello tattico, diversi per il modo in cui parlano ai loro giocatori, per quello che vogliono, ma capaci di farsi rispettare dai loro giocatori. Credo che la fortuna di un giovane allenatore la facciano, salvo qualche eccezione, i tecnici che hai avuto quando hai giocato. Garcia aveva dei lati incredibili ai quali mi vorrei ispirare, Luis Enrique altrettanto. Tanti altri allenatori mi hanno dato molto. Poi ci sono stati quelli con cui non mi sono trovato bene, in
verità solo uno, e in quel caso devo propormi di non fare quello che hanno fatto che, secondo me, era sbagliatissimo. Insomma ho pensato “E’ bello fare quello che fanno gli allenatori?” La risposta è che è devastante, stressante, però è molto bello. E secondo me potrei fare solo quello, nel calcio".

E Di Francesco: "Mi trovo bene, l’ho conosciuto tanti anni fa. Lui era il De Rossi di allora e io ero il Gerson, il Pellegrini. Ero molto piccolo ed è sempre stato un compagno di squadra che esercitava la leadership in modo corretto, quello con più esperienza che tratta bene e insegna ai giovani. Come lui Tommasi, Fuser, Batistuta. Poi è stato il nostro team manager. Ruolo che adesso sta svolgendo Morgan De Sanctis e sono contento di questo. E’ un valore aggiunto per noi, una persona di qualità e potrà portare vantaggi sia alla società che a noi giocatori. Mi trovo benissimo con Di Francesco e sono contento che ora venga riconosciuto quello che sta facendo. Nelle prime partite è stato criticato senza motivo. Ora dimostrerà lui, in un anno a Roma, se è all’altezza o no, ma facciamolo lavorare serenamente. Facciamogli sbagliare dieci partite e facciamogli fare bene dieci partite"

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Antonio Abate
Studio Filologia Moderna a Salerno. Sogno di diventare un giornalista e/o un telecronista sportivo. Direttore Generale di Vavel Italia nonché socio fondatore di TAGS Soc. Coop. Vorace lettore.