Ciudad Maravillosa
Ciudad Maravillosa

Oro, argento, bronzo. Quanto vale una medaglia olimpica? Quanto vale il gradino più alto del podio? O semplicemente quello più basso? Vale una marea di vite umane. La bilancia è in perfetto equilibrio, ma il metallo appare molto più leggero del cuore dell’uomo. Metallo che spesso fa rima con denaro; collegati ma non strettamente dipendenti, perché i ‘valori dello sport’ faranno sempre da scudo. Ma di quali valori si parla? Che sport è quello di cui si parla? Il prezzo da pagare è altissimo e di certo non si esaurirà nel breve periodo. E’ successo in Cina (nel 2008) in Sudafrica (Mondiali 2010) e ora in Brasile (Mondiali 2014, Olimpiadi 2016); e succederà da qualsiasi altra parte. In Qatar? In Russia? E, perché no, nella cara vecchia Italia. Così forse l’Europa toccherà con mano i reali effetti delle sue marionette. Assessori, funzionari, governanti e politici che antepongono l’immagine del proprio Paese alla salute di quest’ultimo. Perché il sorriso della gente non può competere col denaro. Perché Rio de Janeiro è la “CIUDAD MARAVILLOSA” e così deve essere, senza se e senza ma. L’apparire gioca un ruolo fondamentale nel mondo moderno. Si crede che basti spedire la polvere sotto il tappeto per rimuoverla del tutto, ma le grida del popolo sono assordanti e difficili da ignorare.

E’ ovvio che l’accoppiata Mondiali-Olimpiadi ha riportato in auge il Paese della samba, grande custode di tradizioni sportive antiche e inossidabili. E’ovvio che il tornaconto economico risulta notevole. E’ ovvio che i posti di lavoro garantiti dai due megaeventi sono migliaia. E’ ovvio che i turisti hanno invaso Rio e le altre metropoli, garantendo visibilità ad un Paese in forte via di sviluppo. Ma è tutto fumo negli occhi. Non si tratta di disfattismo o critica serrata a priori, negare l’evidenza risulta davvero impossibile. E’ sempre troppo facile parlare dei problemi e non dei lati positivi. E’ ancora più facile sollevare polemiche e non abbozzare soluzioni. Ma in realtà le soluzioni ci sono, oscurate, ma ci sono. Ed è proprio quello l’ago da cercare, nel pagliaio politico e sociale che gira attorno allo sport di massa. Secondo alcune fonti, il costo complessivo (con tutti i progetti correlati) dell’Olimpiade di Rio si aggira intorno ai 10 miliardi di euro. Da comparare, e sommare, con i 14 miliardi già spesi per i Mondiali di due anni fa. Soldi, questi, che il Brasile non ha recuperato (e non recupererà) con il merchandising di contorno, perché tra lo spauracchio “Zika”, le manifestazioni popolari e il rischio attentati, il tornaconto economico non ha soddisfatto le aspettative. Tutto denaro scivolato sulla schiena dei ceti medio-bassi che, col fumo dell’illusione negli occhi, credeva ingenuamente nei Giochi Olimpici e nei Mondiali di calcio. Adesso si ritrova con un bel pugno di mosche in mano e senza un tetto per ripararsi. Già, perché i preparativi agli eventi del secolo sono stati molto intensi e miravano soprattutto alla rimozione di quella parte “malata” e “brutta a vedersi” della nazione. Favelas, baraccopoli, quartieri poveri. Chiamateli come volete, ma sappiate che dentro quei cumuli di legno e fango ci sono dei cuori pulsanti che hanno fame di giustizia e credono nello sport, quello vero. Nel 2014, in occasione della Coppa del Mondo, furono sfrattate 250 mila persone in varie zone del Brasile. Parcheggi, strade, edifici sportivi. Intere popolazioni spazzate via per ridare lustro alla bandiera verde oro. Una bandiera sempre più rosso sangue, il sangue causato dalle violenti repressioni delle forze dell’ordine nei confronti degli “indignados”. Il sangue di tutti quei bambini rimasti senza casa e costretti a prostituirsi per far spazio agli impianti sportivi. Non si trovano finanziamenti per le infrastrutture mediche, ma per miracolo sono apparsi 15 miliardi di fondi (rigorosamente pubblici) per ultimare il progetto olimpico. Progetto, questo, presentato nel 2011, che prevedeva la rimozione di insediamenti informali perché, secondo la prefettura, mettevano in dubbio la sicurezza e l’immagine delle aree di competizione. Dal 2009, in previsione di questi due eventi, è iniziato il “rastrellamento” e all’inizio dei Giochi Olimpici circa il 5% (97150 edifici) del suolo occupato dagli insediamenti è stato ripulito. Ma tra irruzioni violente della polizia e demolizioni continue nelle aree indicate, la paura è quello di uno “sterminio di carattere sociale”. Poichè in realtà le favelas non sono semplici cimiteri urbani. Esse segnano la linea di demarcazione tra la parte ricca e la parte povera della città ma non per questo sono isolate da essa. Esiste un accordo non scritto tra gli abitanti delle favelas e la città di Rio. Essi non sono emarginati, ma ben inseriti nel contesto sociale del Paese. E’ brutto da dire, ma rappresentano un vero e proprio spot per questo angolo del mondo. Il mito di Ronaldo, Pelè e compagni, cresciuti tra terra e sassi con un pallone in mano. Il miraggio delle favelas ha fatto comodo per oltre 100 anni, fino quando il mondo non ha deciso di venire ad osservare di persona le baraccopoli dello sport.

Nello Stato di Rio si contano 1.332 insediamenti informali di questo tipo, ben 763 nella sola capitale. Non sono semplici “formicai umani”, ma le loro mura si spengono come polvere al vento di fronte all’avanzare del denaro. Eppure è strano. Si tratta di un circolo vizioso apparentemente complesso ma dai risvolti molto chiari. Lo sviluppo dei grandi quartieri (come Copacabana, Ipanema e Barra de Tijuca ) richiedeva una grande quantità di manodopera, costretta però a trovare abitazioni di fortuna accanto ai luoghi di lavoro. Ed ecco spiegato l’accostamento hotel di lusso-baraccopoli nei pressi delle spiagge brasiliane. Dunque, i grandi eventi mediatici (sportivi e non) creano interesse turistico attorno alla città. Questo aumenta la richiesta di manodopera e di conseguenza aumenta anche la popolazione delle favelas. Ma qui scatta la contraddizione colossale, perché il governo ha bisogno delle favelas (e dei suoi abitanti) ma è pronto a nasconderle perché rovinano l’immagine e l’effige di un Paese con grande tradizione. Ed ecco perchè si sceglie di compromettere la vita di migliaia di persone per non apparire poveri agli occhi del mondo. Gli individui sfrattati vengono reinseriti (per usare un eufemismo) in altri quartieri e/o edifici posti ai margini della città. Ovviamente sono completamente tagliati fuori sia dal lavoro che dal contesto sociale, a causa della scarsa urbanizzazione di queste zone. Per loro i Giochi Olimpici hanno portato solo stenti e difficoltà, perchè veder irrompere la polizia nelle proprie case alle 7 del mattino non deve essere un bello spettacolo. Le loro grida si odono da un capo all'altro del globo, amplificate da numerose associazioni ed enti umanitari che si preoccupano per la loro situazione. Ma di fatto il ritorno ad una vita “normale” risulta estremamente problematico. Eppure basterebbe poco, basterebbe inserire attivamente gli abitanti delle favelas nel contesto olimpico e non limitarsi a distruggere la loro esistenza. Perchè se Rio è davvero una città meravigliosa lo deve anche a loro, che sono i custodi della passione e del fascino dei vari sport. C'era chi si lamentava per la scarsa atmosfera olimpica all'alba dei Giochi; ma forse le motivazioni di questo assenteismo sono pù evidenti di quel che sembrano...

I grandi eventi non creano ricchezza per tutti e le scottature, necessarie a plasmare l'immagine di Rio, saranno presto evidenti sulla pelle del popolo. I benefici temporanei per questo paese (occupazione, investimenti, progresso) sono una mera illusione, ma l'effige dello sport non può essere macchiata. Tuttavia sono proprio le Olimpiadi a ribellarsi a quanto sta accadendo, consegnando la prima medaglia d'oro ad una brasiliana (Rafaela Silva, judoka) cresciuta tra la polvere di “Cidade de Deus”, una delle favelas più tristemente note da queste parti. Pura coincidenza? Non siamo pronti a giurarlo...

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