Sembrava la fine di un ciclo. È stato bello, siamo stati molto bravi, una delle migliori squadre della Eastern Conference NBA, ma non abbastanza per agguantare un titolo. Questo pareva essere il pensiero dei Toronto Raptors alla fine della scorsa stagione, l’ennesima (si parla della quarta consecutiva) con un record positivo e la post-season conquistata. Dopo due eliminazioni al primo turno (Brooklyn nel 2014 e Washington nel 2015) è stata Cleveland, negli ultimi due anni, a tagliare la testa ai dinosauri, prima in finale e poi in semifinale di Conference.

Il 4-0 senza storia dello scorso anno, unito alle scadenze dei (pesantissimi) contratti di due perni della squadra come Kyle Lowry e Serge Ibaka, aveva messo il General Manager Masai Ujiri davanti ad una scelta abbastanza chiara: spendere tanto per confermare il nucleo degli ultimi anni o lasciare andare in free agency una delle guardie più appetibili della Lega, con lo spazio salariale per ricostruire praticamente da zero. Il rischio sarebbe stato di dover aspettare diversi anni per poter tornare al vertice della Eastern Conference. Ecco quindi che, nel giro di due giorni, ad inizio luglio, il front-office canadese ha preso in mano la situazione indirizzandola di netto verso la prima ipotesi: due triennali messi sul piatto, 100 milioni di dollari per Lowry e 65 per Ibaka. Di conseguenza, considerata esercitata la player option di Valanciunas per il 2019/20, Toronto avrebbe i suoi primi quattro violini bloccati per altre tre stagioni.

Serge Ibaka. | Fonte: twitter.com/JLew1050
Serge Ibaka. | Fonte: twitter.com/JLew1050

Una scelta coraggiosa, che di certo lascia poco spazio salariale per manovrare con il resto del roster, e che rischia di far sprofondare la squadra negli stessi atavici problemi che hanno afflitto le ultime stagioni. L’unica novità in quintetto sarà CJ Miles, che appena scavallati i 30 anni arriva in Canada via sign-and-trade, permettendo ai Pacers di ottenere in cambio Cory Joseph. Un giocatore potenzialmente prezioso, non l’inserimento che sembra poter cambiare gli equilibri del roster. Per il resto, la second unit dei Raptors presenta due lunghi di ottima prospettiva come Siakam e Poeltl, e la promozione a point-guard di riserva di Delon Wright, reduce da due stagioni in ascesa, seppur tra infortuni ed esperienze in D-League. Fiducia confermata anche per Norman Powell, che proprio ieri ha firmato un quadriennale al massimo consentito per un giocatore scelto al secondo giro del draft (42 milioni di dollari) e sarà la seconda scelta per il ruolo di guardia tiratrice. Completano il roster i folkloristici brasiliani Caboclo e Nogueira, il rookie classe ’97 OG Anunoby e altri due giovani con esperienza come KJ McDaniels e Fred VanVleet. Insomma, scommesse e sicurezze, ma soprattutto la netta sensazione che, perdendo nomi del calibro di Ross, Patterson, Carroll e Joseph, la differenza qualitativa tra titolari e giocatori in uscita dalla panchina si sia abbastanza allargata.

Norman Powell. | Fonte: twitter.com/mariot_22
Norman Powell. | Fonte: twitter.com/mariot_22

Si parlava di problemi delle ultime stagioni in NBA, tra tutti spicca l’incapacità di compiere l’ultimo, cruciale salto di qualità. I Raptors, guidati anche quest’anno da un coach carismatico e di impronta difensiva come Dwane Casey, fondano il loro gioco su pochi e chiari principi. Difensivamente, l’obiettivo è far sentire con decisione il fisico, sfruttando guardie “pesanti” e tutti i chili di Valanciunas e Ibaka sotto i tabelloni. In attacco, invece, ovviamente tutti i riflettori sono puntati sul backcourt: e su due attaccanti fenomenali come Lowry e DeRozan capaci di creare occasioni per sé stessi e per i compagni, micidiali nel pick’n’roll con i lunghi se non addirittura tra loro. Sicuramente continuare a puntare sull’ ”usato sicuro” non riserverà brutte sorprese ai canadesi, che però devono combattere con un fantasma abbastanza pesante: il tiro da tre.

Nonostante diversi giocatori siano attorno al 35% di realizzazioni dall’arco in carriera (Lowry, Miles, Ibaka, Powell), le conclusioni dalla lunga distanza rimangono una nota dolente, da imputare ad un mix tra le caratteristiche dei giocatori del roster (praticamente nessuno è un tiratore puro) e, secondo molti, alla poca attenzione che Casey riserverebbe all’aspetto nelle sessioni di allenamento. In una pallacanestro che va sempre più verso l’eliminazione dei cosiddetti mid-range shots, i tiri dalla media che invece rappresentano le frecce più velenose nella faretra di giocatori come DeMar DeRozan e Jonas Valanciunas, i Raptors rischiano di pagare carissimo lo scotto contro squadre che invece tirano da tre con precisione e continuità. L’esempio, lampante, è nell’ultima serie di Playoff giocata contro i Cleveland Cavaliers: la squadra di LeBron James ha sistematicamente lasciato spazio dall’arco non solo allo stesso DeRozan, ma anche agli altri componenti del quintetto, ed un insieme di incertezza e pressione ha fatto crollare le percentuali degli uomini di Casey. Dall’altra parte, invece, le bocche da fuoco non mancavano, e le batoste sono state inveitabili. L’arrivo di un buon cecchino con esperienza come Miles rischia di bilanciare solo parzialmente le partenze di Carroll e Joseph, ed il problema rischia di ripresentarsi ancora più pesante.

Dwane Casey. | Fonte: twitter.com/ClutchPointsApp
Dwane Casey. | Fonte: twitter.com/ClutchPointsApp

Insomma, la strada intrapresa da Toronto è chiara: continuità. Continuità con un passato assolutamente positivo ma sempre orfano di qualcosa, di un risultato che attesti la bontà del lavoro fatto. Il front-office poteva abbattere le fondamenta della squadra e ricostruirla da zero provando a fare di meglio, ed ha invece deciso non solo di mantenere intatto il palazzo, ma anche di proteggerne ornamenti e finiture per provare la scalata alla testa della Eastern Conference, dove Cleveland e Boston sembrano destinate a farla da padrone. Fiducia ad oltranza alla ricerca di una svolta che, a questo punto, dovrà arrivare dall’interno delle teste di giocatori e staff, oltre che dall’interno dello spogliatoio. Che quest’anno sembra più compatto che mai.

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About the author
Stefano Fontana
Ventenne. Ex-Liceo Scientifico abruzzese, trapiantato a Bologna nella facoltà di ingegneria informatica. Da sempre malato di calcio, fede rigorosamente rossonera, alla quale nel tempo si è aggiunta quella biancorossa dei Gunners. Con gli anni ho imparato ad amare tennis e basket NBA, grazie rispettivamente a Roger Federer ed alle mani paranormali di Manu Ginobili. Aspirante chitarrista con poche fortune. Non rifiuto mai una birra gelata.